Wings of Destiny

RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO CAUSIO

Quando ci è stato recapitato Memento Mori degli Wings of Destiny, a sentire il nome della band costaricana chiunque si aspettava di trovarsi di fronte ad un progetto fin troppo simil-Rhapsody. “Ecco un altro album che vuole emulare quel che hanno fatto loro”, mi dicevo, e la bellissima copertina progettata dal talentuoso Harley Velasquez non sembrava riuscire a farmi cambiare idea. Tuttavia, aggiungevo, se questi ragazzi sono arrivati a produrre ben sei album, di certo non lo hanno fatto tributando omaggi a destra e manca: dovevo dare loro una possibilità senza pregiudizi. Già dopo l’ascolto del primo pezzo mi sono dovuto metaforicamente scusare con gli Wings of Destiny. A parte una intro che richiama suoni di battaglia, Playing with Fire, traccia d’apertura, è un brano potente, aggressivo e diretto, che di Rhapsody però ha ben poco: certo, le orchestrazioni abbondano, ma le chitarre mancano del tutto di quello stile che Turilli chiama “neoclassico” per sposarne uno più immediato, mentre la voce è lontana anni luce dalle tipiche tonalità power, avvicinandosi più ad un ibrido fra un heavy metal e un death sinfonico, tant’è che spesso e volentieri si lascia andare ad uno scream che colora ancor di più quanto offerto dalla sezione strumentale. Sin da subito mi è sembrato chiaro quanto Anton Darusso (ecco chi sta dietro al microfono) preferisca strizzare l’occhio più ad uno Johannes Eckerström degli Avatar che ad un Fabio Lione. Ricredutomi già da subito, non posso che passare al pezzo successivo. Death Wish è un brano più melodico e accattivante, tant’è che Darusso non fa praticamente mai ricorso a distorsioni, cercando di pulire la voce il più possibile. Il pezzo è ritmato e mostra un altro volto della band costaricana, decisamente meno aggressivo e caratterizzato da linee di chitarra armoniose e piacevoli. Lo stesso stile è riproposto in uno dei brani che più ho apprezzato, sin dalla intro di pianoforte che gli Avatar stessi apprezzerebbero, Holy Grail. La canzone non aggiunge praticamente nulla rispetto alla precedente, ma mi ha affascinato particolarmente la sua melodia e la capacità di coinvolgimento del ritornello. Se con Shadowland si torna su un percorso più cupo e aggressivo, quello tracciato da Playing with Fire, con Reborn Immortal, che si apre con un synth interessante, si torna su un power che culmina nel ritornello caratterizzato dai botta e risposta fra la voce principale e i cori, peraltro presenti anche nel resto dell’album. La successiva My Freedom, invece, apparentemente rallenta i tempi, ma è solo un’illusione: certo, è decisamente più distesa delle precedenti, ma la batteria di Horacio Paris Kofoed è martellante per tutti i cinque minuti di canzone, che nella parte finale si lascia andare ad una sezione più aggressiva prima di avviarsi ad una conclusione caratterizzata da ritornelli in cui la tonalità si alza e Darusso può dar prova di tutte le sue doti, mostrando come il power sia decisamente nelle sue corde.
Si giunge presto ad un brano che, lo ammetto, non vedevo l’ora di ascoltare per il suo titolo, Of Dwarves and Men, che chiaramente si ispira al romanzo breve di Steinbeck, Of Mice and Men. Il pezzo si apre con una intro eseguita da Emil Minott con un basso distorto che già lascia intendere dove si vuole andare a parare: la canzone è potente, veloce, martellante. Dopo una parentesi melodica, ora gli Wings of Destiny mettono in mostra il loro lato più “estremo”, seppure anche qui fanno capolino i ritornelli orecchiabili. È il momento della title track, Memento Mori, forse una di quelle che più si avvicina, almeno dal punto di vista strumentale, al sound dei Rhapsody, in particolare nell’organo che introduce e che pervade la canzone. I cori, invece, sono tutt’altro che vicini al power, sacrificano la potenza per la melodia, preferendo di conseguenza sposare uno stile più vicino al classic rock e restituendo un piacevole contrasto con la voce graffiante di Darusso. Tralasciando City on Fire, che poco aggiunge a quanto sentito, preferisco concentrarmi sul pezzo di chiusura, Theater of Tragedy. La canzone, cupa come poche altre nel disco, si compone di diverse sezioni che si intersecano durante i sette minuti della sua durata, ma ciò che veramente colpisce è l’atmosfera che gli Wings of Destiny hanno saputo dare al brano: un teatro degli orrori in cui è la follia stessa che va in scena. La fantasia può viaggiare mentre la voce di Darusso trascina con sé l’orecchio dell’ascoltatore in accattivanti e ipnotiche cantilene. Ottima scelta per chiudere un album, decisamente all’altezza, se non al di sopra, del resto delle canzoni. In conclusione, a dispetto di quanto mi aspettassi inizialmente (maledetti siano i pregiudizi!), Memento Mori è un album ben diversificato, ma soprattutto ben scritto e suonato. Presenta alcuni brani molto accattivanti, come Holy Grail o Theater of Tragedy, su cui influisce certamente anche l’ottima produzione: non a caso, infatti, i ragazzi costaricani sono alla loro sesta pubblicazione. Inoltre lo stile, chiaramente power, non si fossilizza sui dettami del genere, non disdegnando le influenze del symphonic death. Il risultato è un buon disco che scorre velocemente e piacevolmente, in virtù delle capacità compositive degli Wings of Destiny, abbastanza maturi da non fermarsi al tributo. Anche perché, ormai, non c’è più nulla cui debbano pagare un tributo. Voto 8.0

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