Warrior path

RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO “KLAUS” CAUSIO

A due anni dall’esordio con il disco omonimo, la power metal band del chitarrista greco Andreas Sinanoglou, nota ai più come Warrior Path, torna sotto le luci della ribalta in una maniera particolarmente sorprendente: oltre a sfornare un pregevole lavoro (è proprio di questo che parleremo in questa sede, perciò non vi anticiperemo nulla), si presenta con una formazione in parte rivisitata, perché, sebbene dietro le pelli sieda nuovamente Dave Rundle e ad occuparsi di basso, tastiere e seconda chitarra sia ancora Bob Katsionis, alla voce “cantante”, dove nel 2019 figurava il nome di Yannis Papadopoulos (già Beast in Black), leggiamo “Daniel Heiman”, che i più ricorderanno come leader dei Lost Horizon, evidentemente sorpreso in positivo dalla proposta musicale della compagine greca. E se un nome così importante ne sostituisce uno altrettanto pesante, come può essere, oggi quello di Yannis, è fuor di dubbio che le aspettative debbano, per forza di cose, essere alte.
A primo acchito, gettando uno sguardo alla copertina, per altro bellissima, non può non ritornare alla mente quella, altrettanto meravigliosa, sfornata dai tedeschi Blind Guardian per uno degli album più importanti e innovativi della scena power, Nightfall in Middle-Earth: un re siede sul suo trono e fissa il suo interlocutore, dall’alto del suo scranno. Certo, non siamo di fronte ad un resuscitato Morgoth, per di più al suo fianco non figurano tesori, orchi o spiriti, né la sua corona è ornata dei preziosi Silmaril, ma qualche sorprendente particolarità fa certamente il suo, al colpo d’occhio generale. Per esempio, la curiosa e oltremodo bizzarra contrapposizione tra lo stregone e il giullare, il quale per altro fa da contrappeso anche allo sguardo serioso del suo re. Ma non divaghiamo troppo sull’estetica, certi comunque che possa essere un importante biglietto da visita: gli Warrior Path avvisano l’ascoltatore di non essere di fronte ad un comune disco power, pregno di draghi e valorosi guerrieri (non se ne può più!). Qui c’è potenza, rabbia, ma anche follia, un tentativo di uscire dalle righe pur rimanendoci dentro…insomma, ci si può aspettare di tutto e nulla, per esempio la totale mancanza di una ballad, sebbene molti dei dieci brani del disco preannuncino, nelle loro intro, rallentamenti e momenti riflessivi. Non ce ne sono, l’ascoltatore affamato di power e adrenalina può stare tranquillo.
In effetti, è proprio con dolci e lenti arpeggi che si apre la prima traccia, It Has Begun, strumentale che si rivela tutt’altro che tranquilla, lasciandosi andare a potenti schitarrate accompagnate da una batteria ritmata e incalzante, di fatto preparando il campo alla title track, The Mad King, classico pezzo power dal ritornello pomposo e catchy, che denota però un’abilità compositiva di un certo livello: momenti lenti si alternano a sezioni più violente e, come del resto tutto il disco, ad istanti dominati da suoni di sfondo, come la folla festante distinguibile chiaramente nei primi minuti. E se Sinanoglou si è magistralmente destreggiato fra la chitarra e la penna, dal canto suo Heiman certo non fa rimpiangere il suo predecessore, presentandosi con acuti prepotenti e con una linea vocale non particolarmente ricca di virtuosismi (neanche priva!), ma efficace e quanto mai adatta al contesto. The Mad King è un brano potente e deciso, ma soprattutto un riassunto degli ingredienti utilizzati nella composizione dell’intero disco, non a caso ne è la title track: orchestrazioni presenti ma non invadenti, chitarre potenti e predominanti che si spartiscono la scena con una voce acuta e decisa, consapevole delle sue capacità, ritornelli orecchiabili e accattivanti. Tutto torna nell’intero album ma seguendo uno schema che permette la diversificazione, senza mai stancare l’orecchio dell’ascoltatore, ovvero quello per cui, lo ribadiamo, sezioni lente lasciano campo ad attimi più veloci, modellando come fosse terracotta il ritmo non solo del disco ma anche di ciascuna traccia, dando vita ad un prodotto essenziale e diretto e al contempo mai banale o scontato. Perciò, se la terza traccia, His Wrath Will Fall, risulta funzionale in sede live grazie al suo ritornello semplice ed efficace, dove la fanno da padroni dei cori senza testo, lo stesso vale per quella “falsa ballad” che è Don’t Fear the Unknown, che ovvia alla sua complessità e lunghezza con espedienti funzionali, quali i già citati cambi di ritmo e la capacità ad avvolgere e coinvolgere l’ascoltatore.
Insomma, il disco scorre bene e piacevolmente, senza mai uscire fuori dalle linee guida che la compagine greca si è stabilita. A farla da padrone è sempre il tempo incalzante, scandito da brani energici e potenti, laddove a costituire i momenti di rottura e di pausa sono quegli istanti di tranquillità che contraddistinguono per lo più le intro di gran parte dei pezzi: gli Warrior Path sfruttano sapientemente la lunga durata delle loro composizioni, servendosene per creare varietà e potersi permettere di conseguenza un album di dieci tracce sempre sostenute, energiche e mai sotto un certo numero di bpm. Non solo, anche l’utilizzo di suoni ed effetti non musicali, come la già citata folla festante, e di strumenti inconsueti, come il corno che introduce Savage Tribe o il tappeto di percussioni all’inizio di Don’t Fear the Unknown, risultano complici dello schema compositivo adottato dagli Warrior Path e, dobbiamo dirlo, con successo: il risultato è un album mai banale seppur sempre semplice ed essenziale. Non è necessario l’abuso di orchestrazioni, tracce non musicali, come anche di alcuna ballad, ma solo l’uso sapiente di tutto ciò che i Nostri hanno a disposizione, senza risparmiare nulla. Tutto è funzionale alla buona riuscita del disco, dove serve qualcosa che si prenda la scena dando respiro alle chitarre, basso e batteria si compongono in una sezione ritmica che mai esce dalle righe, ma pur sempre pulita e perfetta. Quando la voce sembra saturare troppo l’ascolto, ecco che giungono in suo aiuto i cori, che permettono di svariare. Il tutto è condito da una produzione ottima, la quale restituisce un sound limpido, inevitabile se si vuole lanciare sul mercato un lavoro simile ed evitare di essere stucchevoli, oltre che per far sì che tutto emerga quanto merita e quanto deve. Insomma, per un album del genere, per determinate aspettative, nulla deve essere lasciato, i Warrior Path lo sanno e hanno curato ogni minimo dettaglio. Presumiamo che non avrebbero potuto fare di meglio. VOTO 8

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