RECENSIONE A CURA DI ENZO “FALC” PRENOTTO

Il power metal, specie negli anni recenti, sta piano piano mostrando evidenti segni di spossatezza ed è relegato unicamente o ai big del genere oppure all’underground. Nel mezzo ci sono tantissimi esponenti della corrente neo power europea nata negli anni 90’ che sono rimasti in uno strano limbo dove per uscire bisogna tentare di rinnovarsi per non finire nel dimenticatoio. Tra questi ci sono i Seven Thorns dalla Danimarca che non sono stati certo fortunati nella loro carriera. Nati nel 1998, in piena epoca d’oro per il genere, arrivano poi fin troppo tardi all’esordio ovvero circa dieci anni dopo quando il power stava già mostrando segni di cedimento. Il genere proposto dal combo di Copenhagen è totalmente dedito alle sonorità classiche per poi evolversi improvvisamente nel 2018 quando esce il terzo disco ossia questo Symphony of Shadows che tenta la strada oscura come fecero moltissimi altri colleghi avvicinandosi in maniera blanda alla scena americana.
Oltre al cambio di rotta ci sono anche diverse novità nell’ambito della formazione che si ritrova con un solo chitarrista e con due nuovi innesti ovvero alla voce (Björn Asking al posto di Erik Ez) e al basso (Mads Mølbæk in sostituzione di Nicolaj Marker). Musicalmente si vira moltissimo verso un’impostazione più quadrata e dai tempi meno veloci puntando più su atmosfere gotico/oscure come i semi compaesani Manticora dell’interessante doppietta The Black Circus Part. 1 & 2. Il power si tinge di thrash metal diventando decisamente aggressivo con la chitarra impegnata in riffs iper massicci come le rasoiate letali di “Ethereal (I’m Still Possessed)”, le bastonate deflagranti dell’apocalittica e finale “Symphony of Shadows” con una sezione ritmica sempre sul pezzo e micidiale al punto giusto seppure una produzione più all’altezza avrebbe giovato a causa di suoni un po’ troppo sottotono. Le melodie si tingono quindi di nero eppure riescono ad amalgamarsi in maniera tutto sommato convincente grazie in primis a delle tastiere orchestrali che gonfiano le tracce discretamente sia nei duelli neoclassici alla Sonata Arctica con la sei corde (“Evil Within”) o negli intermezzi aristocratici (“Black Fortress”). Il nuovo singer riesce a non far rimpiangere il precedente Eirk, che puntava ad un cantato dai toni alti, offrendo una performance molto più sporca ma che riesce ad impressionare anche nei momenti più melodici come la riuscitissima “Castaway” o la falsa ballata “Last Goodbye” con doppia cassa e tastiere a tutta velocità piena di cori e voci eroiche per non parlare dell’equilibrata “Virtual Supremacy”. Lascia un po’ perplessi la pur buona “Beneath a Crescent Moon” che si ispira ai limiti del plagio ai Myrath con tanto di voce femminile ed atmosfere arabeggianti. Andando al punto si nota un miglioramento nella scrittura che cerca di discostarsi dal classico power trito e ritrito ma che non sempre riesce a farsi ricordare con dei ritornelli troppo deboli finendo con il risultato che ci si ricorda poco di quanto ascoltato ma che allo stesso tempo invoglia nuovamente a risentire il disco per cogliere ogni sfumatura che poteva non essere raccolta durante il primo ascolto. Tecnicamente il gruppo appare coeso e preciso soprattutto cerca di variare nelle ritmiche e non andando nelle sterili sonorità moderne che stanno contagiando quasi tutto il mondo metallico.
Un lavoro discreto tra il power ed il thrash metal che non fa gridare il miracolo ma riconferma che i Seven Thorns hanno le carte in regola per diventare un piccolo cult dato che la qualità non manca. Si spera possano ancora migliorare ma in fin dei conti anche così si ha di che godere. VOTO 7.0