Ozzy Osbourne

RECENSIONE A CURA DI FABRIZIO PAVAN

Il 21 febbraio del 2020 è stata inaspettatamente pubblicata l’ultima fatica di Ozzy Osbourne intitolata “Ordinary Man”. Una bella sorpresa considerando i problemi di salute che lo hanno segnato negli ultimi anni. La diagnosi di Parkinson e le successive complicazioni avrebbero fermato chiunque ma non il principe delle tenebre.
Accantonate le tematiche dell’occulto, dello sballo e della pazzia, a trovare spazio è finalmente (come suggerisce il titolo dell’opera) il lato più umano del cantante.
Prima come leader del Black Sabbath e poi come solista, Ozzy Osbourne è in attività dalla seconda metà degli anni sessanta ed è sempre stato in grado di stare al passo coi tempi sfornando hit ineguagliabili. Pur non disdegnando partecipazioni a programmi televisivi di dubbio gusto è riuscito a conquistare generazioni di fans come probabilmente nessun altro prima di lui.
Sulla scia di quanto iniziato con il predecessore “Scream”, Ozzy continua infatti a rivolgersi ad una platea più vasta di quella prettamente metal, attirando certamente l’interesse di una nuova fetta di pubblico ma deludendo in parte gli adepti di vecchia data che continuano a considerarlo il padrino dell’heavy metal.
Analizzandolo in quest’ottica, bisogna dire che l’album si presenta come un buon lavoro, più vicino all’hard rock che al metal. Alcune considerazioni sono però doverose. Bizzarra ad esempio è stata la scelta di privarsi dei virtuosi assoli di chitarra del leggendario Zakk Wylde, anche se ci possiamo consolare grazie alla presenza di featuring a dir poco prestigiosi quali quelli Slash, di Duff McKagan e di Chad Smith.
La collaborazione più sorprendente è sicuramente quella con Elton John nel singolo omonimo. Nonostante un sound già sentito in passato e l’estrema semplicità della composizione si riesce infatti a percepire una totale intesa tra i due mostri sacri, forse solo apparentemente così diversi tra loro. Come se non bastasse l’inconfondibile piano suonato dall’autore di “Your Song”, il pezzo si chiude con un convincente assolo di chitarra di Slash.
Merita di essere citata anche la traccia successiva “Under The Graveyard” che grazie al giro di basso impartito da Duff e ad un ritornello degno dei migliori Black Sabbath risulta essere uno dei brani più riusciti.
Discutibile invece la collaborazione col rapper americano Post Malone nelle ultime due tracce: la debole “It’s a raid” e soprattutto il brano di chiusura “Take what you want” (presente in origine nel terzo album in studio di Post Malone “Hollywood Bleeding”) sono completamente fuori contesto.
In conclusione, bisogna ammettere che per l’ennesima volta il principe delle tenebre è riuscito a superare ogni più rosea previsione. Qualcuno aveva dei dubbi? VOTO 7.5

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