RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO CAUSIO

Gli Estriver, band triestina nata nel 2019 e naturale prosecuzione dei Bluerose, si presenta al grande pubblico con Outcry, un disco d’esordio che non è un vero e proprio esordio. Le già presenti professionalità ed esperienza del quintetto italiano emergono chiaramente dai dodici brani che compongono questo album, il quale si presenta sin dalle prime note ben scritto, lavorato e prodotto: il sound è limpido, cristallino, e permette ad ogni strumento di emergere senza strafare, mescolandosi alla perfezione all’intero insieme. Quanto a composizione, risulta altrettanto chiaro sin da subito che gli Estriver vogliono fare sul serio, proponendo un hard rock accattivante, coinvolgente, fondato su una granitica sezione ritmica su cui si impongono le melodie della chitarra solista di Giuliano Soranno, ma soprattutto della voce graffiante di Pietro Pattay, in grado di dimostrarsi al contempo tecnica e sentimentale, riuscendo con le sue note a trasportare l’ascoltatore fin dentro le tematiche toccate dai brani della sua band. La professionalità e l’esperienza degli Estriver si notano anche nella composizione del disco nel complesso, che può essere in linea di massima diviso in almeno due parti, la prima delle quali formata da brani molto orecchiabili e potenti, introduttivi del sound proposto dalla band. In questa prima sezione, gli Estriver si presentano al pubblico, lo attirano nel proprio mondo con un hard rock ritmato e accattivante ma non troppo spesso diversificato, mentre nella seconda i nostri propongono un hard rock molto simile a quanto già espresso all’inizio, ma aprono al tentativo, alla sperimentazione. Ecco allora che, se Nails, traccia iniziale, suona come qualsiasi classico brano del filone cui gli Estriver si connettono, Vision of Eden, nono pezzo, si apre con una intro indianeggiante, quasi esotica, ma ben inquadrata in una trama che è chiara all’ascoltatore fin dal titolo. Tutto è come deve essere: il momento di passaggio avviene proprio a metà, o quasi: Human Destiny, quinta traccia, introduce il cambiamento attraverso un intermezzo rallentato che spezza nettamente sia con quanto già ascoltato precedentemente che con lo stile di scrittura cui gli Estriver hanno abituato l’ascoltatore fino a quel momento. Insomma, se per le prime canzoni il giudizio potrebbe essere: “eccoci di fronte al solito album hard rock uguale a se stesso, che si fa forte degli stacchi in levare per apparire più orecchiabile”, con Human Destiny l’opinione di questo ipotetico aspro e sedicente navigato critico musicale deve necessariamente Cambiare. Come si diceva, però, la mutazione non avviene di netto, ma è solo leggermente abbozzata alla quinta traccia, trovando comunque conferma solo dall’ottavo brano, The Man Who Could Fly, molto più raffinato ed elegante rispetto al resto, ma non abbastanza da dirsi una ballad, pur configurandosi comunque come momento di innegabile distensione all’interno di Outcry. Presentata da una intro decisamente canonica, per niente estranea alle linee guida tracciate dal resto del disco, presto si lascia andare ad un momento di chitarra classica e voce. Appunto, solo un momento: le distorsioni riprendono il sopravvento, ma nel ritornello si fanno accompagnare da una sezione corale che ritornerà anche sul finale di Hiraeth, undicesimo pezzo. Un solo, infine, lancia la chiusura, per un brano che sacrifica in parte la caratteristica componente ritmata per guadagnare in quanto a melodia, ottenendo come risultato una particolare orecchiabilità riassunta in un effetto catchy vincente. Abbiamo solo citato Hiraeth, ora è momento di focalizzarci su di essa. Posta immediatamente dopo il singolo The Dreamer, essa è introdotta da una parte non musicata, in cui è possibile udire una sirena, probabilmente di una volante della polizia, cui fa seguito la voce di una ragazza che, dopo aver inserito una cassetta in un vecchio walkman, si Abbandona ad un momento di canto libero. Il resto del brano rispetta le linee guida del disco, accentuando però l’elemento dissonante di certe melodie, che qui diventa centrale. Alla fine del pezzo, quella chitarra classica già citata in precedenza ritorna per guidarci verso Brighter Than the Sun, nulla di particolare o di diverso rispetto a quanto già sentito. La chiusura lapidaria segna anche la fine del disco. In conclusione, non si può non dire che Outcry sia un ottimo disco. Tenta qua e là di diversificarsi, di allontanarsi dal mantra dell’hard rock, ma spesso e volentieri resta fedelmente attaccato ai dettami del classico, servendosi spesso di stratagemmi diffusi nel genere per stuzzicare l’orecchio dell’ascoltatore. Quando però riesce a conquistare l’attenzione del suo pubblico, azzarda quale sperimentazione, dimostrando timidamente l’ispirazione prog metal che si cela dietro parte della band. In sostanza, mette in luce tutta l’esperienza degli Estriver, bravissimi anche a costruire il disco prestando particolare attenzione alla scaletta che lo compone. Per parlare infine delle capacità individuali dei nostri, Piero Pattay dimostra grande abilità nello sfruttare la propria voce sia in maniera melodica che aggressiva, così come entrambe le chitarre, versatili al punto giusto per dare vita a momenti più granitici e altri più morbidi, fino agli assoli, sempre ben strutturati e mai confusionari. Infine, la sezione ritmica, basso e batteria, risulta sempre sul pezzo, mai fuori le righe, offrendo sia un buon tappeto per i compagni di band che la chiave per catturare l’orecchio dell’ascoltatore. In conclusione, Outcry è un disco consigliato ad amanti di rock e metal, piacevole all’ascolto e sicuramente mai di difficile comprensione. VOTO 7.0