RECENSIONE A CURA DI FABIO SANSALONE

Facciamo un tuffo nel passato, nei tanto amati anni ‘90, gli anni in cui la scena black metal greca vide sorgere band di tutto rispetto, alcuni tra queste i Rotting Christ, SepticFlesh, Necromantia e Varathron. Vanno ad aggiungersi ai già citati, precisamente nel 1994 gli Order of the Ebon Hand. La band, di Atene, viene formata da Orestis Oikonomopoulos, in arte Merkaal, alle prese con voce e basso, e da Akis Kapranos, batterista dei SepticFlesh. La band di cui oggi vi parlo, appunto gli Order of the Ebon Hand, nonostante sia all’attivo da molti anni, ha pubblicato soltanto tre studio album e due split, oltre ad aver preso parte a varie compilation di tribute band. La loro discografia fino ad oggi è composta da: The mystic path to the netherworld, full length di esordio pubblicato nel 1997, a distanza di otto anni, nel 2005, vide la luce il secondo album dal titolo XV: The devil. L’anno successivo è la volta del primo split, Two years standing proud in Valhalla, mentre soltanto nel 2013, dopo altri otto anni di assenza, il secondo split Behold the sign of a new era/Generation of vipers. Trascorsero altri sei anni, giungendo quindi al 2019, quando i nostri pubblicarono il terzo album, VII: The Chariot. Full length di cui parleremo in questa recensione. A produrre il loro terzo lavoro è la Satanath records, label che vede le sue radici in Russia. Per quanto riguarda le collaborazioni, invece, vanno menzionati Christos Antoniou e Sotiris (SepticFlesh), i quali parteciparono al processo di registrazione del primo album degli Order of the Ebon hand (Prodotto dalla Season of Mist). Mentre Sakis Tolis (Rotting Christ), è vocal guest di quest’ultimo VII: The Chariot. Dopo questa premessa quindi, ci addentriamo in questo loro concept iniziando a parlare dell’artwork…
Cosa interessante è che ogni album tratterà una carta dei tarocchi, vista ovviamente attraverso il loro archetype black metal. La copertina di The Chariot, contornata di nero, raffigura come si evince già dal nome un guerriero sopra un carro, con tanto di mantello e armatura, trainato da due cavalli, uno nero e uno bianco, che sta ad indicare la forza negativa e quella positiva. Sebbene sembri guidare il carro, in realtà, il guerriero non ha le redini in mano e, questo, simboleggia che riesce ad avere il controllo dello stesso attraverso la forza della sua volontà e della sua mente. E’ senza ombra di dubbio un bell’artwork, suggestivo e cupo, creato da Vamperess Imperium. E, dopo aver fissato per un pò questa invitante copertina, andiamo ad analizzare quello che Merkaal (basso e voce), Phlaigon (chitarra e voce), Obsidian (tastiere) e Deimos (batteria), attuali componenti della band, ci propongono in questo terzo album, dal titolo VII: The Chariot…
Il concept è basato, come già si può comprendere dal significato del tarocco illustrato nella copertina, sullo scontro tra i concetti di morte e di identità, tra l’oblio e la libertà. Questo sembra essere il filo conduttore dell’album, in quanto il carro è inteso metaforicamente come uno strumento di scontro per raggiungere la conquista di un obiettivo. E, a seconda del conflitto in atto, questo può assumere di volta in volta forme differenti. Ad esempio, nel brano di apertura, Dreadnaught prende le fattezze della nave corazzata. Infatti la traccia si apre con un suono di chitarre e batteria pulite ma allo stesso tempo minacciose, cosi come il cantato si inserisce assieme alle tastiere che di tanto in tanto sembrano completare un quadro che ci porterà in un percorso di circa sei minuti caratterizzato dapprima in un suono più pacato, addolcendosi a un certo punto con un assolo degno di nota e un pò inaspettato, visto il genere proposto, che si prolunga per un bel pò, come a caricare l’aggressività che ci prende all’orecchio da subito nella seconda traccia: Mores (Night’s mare), la quale parte in quarta con una batteria martellante e un riffing tagliente e molto imponente. La voce è alquanto graffiante e molto tipica del genere proposto, cosi come il sound di tastiere in sottofondo, si amalgama in modo quasi claustrofobico all’intera traccia che, dopo una breve durata, porta a concludersi con l’allontanarsi di tutti gli stumenti lasciando in risalto proprio la tastiera, la quale si “spegne” per ultima. Wings, terza canzone dell’album, prosegue in linea coerente con la precedente. Anche in essa troviamo quel sound tipico del black metal stile anni ‘90. Quindi un mix di batteria martellante, ancora riffing tagliente e voce stridula. Di tanto in tanto la velocità diminuisce, seppur per pochi secondi, cosa da evidenziare in quanto, nel complesso, risultano attimi piacevoli all’udito. Verso il quarto minuto un duetto di sola batteria e ritmica, preannunciano la sfuriata finale, accompagnata dalla voce di Merkaal che conclude la traccia con un grido stridulo. Sabnock non è da meno della precedente, nota di merito in questa traccia va a Sakis dei Rotting Christ, che lo vediamo come vocal guest. Interessante quindi la particolarità di un cantato più rauco. Knights of swords inizia arpeggiando con un vento in sottofondo che soffia. A metà album è come a dare un pò di quiete all’ascolto, anche se poi riprendono minacciose le chitarre e la batteria. Altra traccia che crea una sensazione cupa e claustrofobica nonostante il riffing sembra assumere un suono più malinconico, seppur in forma sottile. Si ha, ad un certo punto, una sensazione tale da sembrare di trovarci in mezzo ad una battaglia, visto il coro in sottofondo che va ad arricchire il tutto. Forse la canzone più bella e coinvolgente dell’intero full (almeno secondo i gusti del sottoscritto), in quanto ha si quella violenza tipica del genere, ma allo stesso tempo, in diversi tratti, c’è un cambio di “stile” dove la fanno da padrone atmosfere più malinconiche, tamburi più tecnici e meno aggressivi e cori notevolmente suadenti. Il tutto va a concludersi con una risata del cantante. E’ il turno di Aiantas, sesta canzone. La traccia è dedicata all’eroe omerico Aiace Telamonio. In essa, ad esempio, la battaglia non si svolge ne in mare e neppure nei campi, bensì nell’animo stesso del campione greco, il quale, non accetta il fallimento come guerriero e la vergogna che ne deriva. In questo caso quindi, Aiace sale sul carro e inizia la corsa verso l’oblio, dopo la consapevolezza che ogni suo giorno di li in avanti lo avvicinerà alla morte. Musicalmente i quasi sei minuti della canzone scorrono fluidi, piacevole il carisma di Merkaal. Il sound ben distinto di tutti gli strumenti, che sparano a cento all’ora, riesce a tener testa allo stile della voce che, in alcuni momenti, assume un tono più narrativo. Il riffing, in alcuni punti, ha un sound meno cupo e più epico, a tenere ben chiaro il senso di battaglia. Giungiamo quindi alla settima traccia, Bael, che ritorna allo stile delle prime cinque, come se la sesta canzone fosse stata una parentesi, forse per il cantato differente e il tema più epico, per distoglierci da un ascolto che altrimenti avrebbe potuto assumere un senso di monotonia. The slow deathwalk, traccia che va a chiudere l’album, tra l’altro la più lunga visto i suoi quasi otto minuti, parte in modo più calmo e sembra, almeno in principio, dare più risalto al suono di tastiere che risulta quasi bizzarro. Lieve sfuriata per poi riprendere una linea più melodica, dolente e malinconica che prosegue sino alla conclusione. E proprio per concludere questo viaggio, citando Victor Santura al mastering, si evince quindi che:
Gli Order of the ebon hand, con questo terzo album VII The Chariot, nel 2019, hanno dimostrato di essere coerenti con la loro proposta musicale nel corso degli anni. E’ vero che si parla di archetype black metal, quindi l’ascoltatore non deve pretendere di trovarsi di fronte un qualcosa di eccezionale e nuovo ma bensì del classico black metal anni ‘90 dove la ferocia, l’aggressività e la violenza la fanno da padrona. Musicalmente quindi, ci troviamo di fronte un lavoro che di sicuro farà felici gli amanti del genere e gli incalliti ascoltatori che hanno preferito non espandere la propria cultura musicale ma restare in un certo senso legato e fedele alle proposte di tanti anni addietro. Per questo tipo di pubblico, l’album di sicuro renderà soddisfatti e si farà riascoltare volentieri perchè nel complesso, non pecca di monotonia, non è un full che alla fine risulterà piatto e crudo in senso di composizioni. Vanno, anzi, sottolineati due fattori importanti, il primo è che abbiamo a che fare con una buona produzione, quindi tutti gli strumenti si sentono in modo ben chiaro e ben distinti tra loro, cosa molto notevole specie per il genere proposto che, al contrario prevederebbe una produzione più grezza e meno definita. Il secondo motivo è che, i nostri, hanno dimostrato di avere buone idee a livello di composizione, quindi abbiamo a che fare, oltre che alla indiscussa bravura dei musicisti a livello tecnico, anche con una band che dimostra di avere idee abbastanza originali e che non seguono una linea retta ma sanno alternare al sound più violento, una buona dose di note originali sia a livello di riffing, che di tastiere che risultano inserite nel punto giusto e che, per questo, non risultano fuori luogo o invadenti. In conclusione, anche se non siamo di fronte un capolavoro, anche se il senso di godimento non raggiunge livelli alti, c’è da dire che nell’album sono presenti momenti di picco alti che lo rendono degno di essere classificato come un concept abbastanza personale e tecnicamente notevole. Cosi come sono presenti anche momenti di basso rilievo dovuti, probabilmente, a quello stile tipico che in molti anni il nostro udito si è abituato ad ascoltare con vari altri album. In un mondo stracolmo di band e di nuove proposte musicali, riuscire a soddisfare l’ascoltatore, non è impresa da poco. Ecco perchè, per quanto mi riguarda, promuovo l’album in questione e restiamo in attesa di un loro nuovo lavoro che credo non tarderà ad arrivare. VOTO 7.5