RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO “KLAUS” CAUSIO

Se in Germania il mainstream del metal, per quanto riguarda il giugno del 2021, è stato caratterizzato dall’attesissima prima pubblicazione degli Helloween a formazione unificata, l’underground non è rimasto certo a guardare i “fratelli maggiori”, ma si è dato decisamente da fare. Nel nostro caso, in particolare, si tratta di una band di Francoforte, gli On Atlas’ Shoulders, che dopo il primo disco, “Invictus”, tornano con un secondo lavoro intitolato “Hyperion”, proponendo un epic metal dalle marcate sfumature power. La band, composta da quattro elementi quali Marius Bӧnisch, fondatore, alla voce, Bjӧrn Anders e Ben Chadwick alle chitarre e ai cori, l’ultimo dei quali, in studio, si dedica anche al basso, ed infine Leonard Pick alla batteria, nasce nel 2018 e, conseguentemente all’uscita di tre singoli, pubblica il già citato disco d’esordio, cui “Hyperion” fa da seguito.
Il sound che gli On Atlas’ Shoulders propongono esprime un epic metal nettamente influenzato dal power sviluppatosi proprio nelle loro terre, tra gli Helloween e i Blind Guardian, arricchito da una capacità tecnica decisamente elevata e, soprattutto, ben messa in mostra. Si riscontrano virtuosismi e tecnicismi di batteria e di basso, ad esempio, che però non sono mai fini a se stessi, ma contribuiscono da protagonisti alla buona riuscita dei brani. Ad una sezione strumentale ben lavorata fa riscontro quella vocale altrettanto curata, capitanata dalla voce potente e limpida di Bӧnisch, accompagnata dai cori, offerti dai due chitarristi, mai banali. Il tutto è condito da una composizione ed una produzione di ottima fattura, testimoniate dal sapiente uso fatto sia degli strumenti che di suoni extramusicali, oltre che dal sound, il quale anche risulta essere pulito e ben curato. Insomma, da un punto di vista preliminare c’è ben poco da dire, se non che forse la voce di Bӧnisch sembra tenersi leggermente dietro rispetto al resto della strumentazione. Ad ogni modo, produzione, composizione ed esecuzione, tutte eccellenti, si mettono a disposizione di un disco composto di dieci tracce, potenti, incisive e al contempo facilmente assimilabili. Ritornelli accattivanti e melodie coinvolgenti restituiscono un album decisamente riuscito, soprattutto grazie alla capacità mostrata dai quattro tedeschi di variegare il loro repertorio pur sfruttando solo due o tre trovate. Il segreto non può che stare, appunto, nella dedizione alla scrittura che ha permesso loro di sfornare un full-lengh mai stancante, in cui oltre all’epic e al power già citati risuona, in maniera abbastanza esplicita, il più classico degli hard rock. È il caso di “Flight of the Falcon” o di “Biohazard” che, appunto, sfruttano quegli elementi che nel metal funzionano, inquadrati però in un genere solo in parte legato a quel che generalmente esprimono gli On Atlas’ Shoulders: voce e cori potenti, melodie e ritmiche incalzanti, scandite da doppia cassa e da schitarrate violente ma pulite e ordinate, il tutto condito da un sapiente uso delle pause, riscontrabile tra l’altro in pressoché tutto il lavoro, come per esempio nella traccia di apertura, “The Executioner” (colonna sonora, per giunta, di un video musicale), dove sono appunto le pause il vero ago della bilancia nei ritornelli.
Come si è detto, anche l’attenzione per la ritmica gioca un ruolo fondamentale: è il caso di un brano che chi scrive ha apprezzato particolarmente, quale “When Heavens Collide”, caratterizzato non solo dall’ormai noto ritornello orecchiabile, ma anche da una ritmica preponderante, per quanto riguarda le strofe, volta a stimolare l’headbanging e il coinvolgimento in sede live. La possibilità di sfruttare questi elementi per diversificare la produzione ha permesso alla band di non includere una ballad nel disco, laddove l’unico momento di distensione è costituito dal ritornello di “Age of Fire”, sebbene la canzone, di per sé, sia tutt’altro che un rallentamento rispetto alle velocità cui i quattro tedeschi ci hanno abituato.
Altra nota positiva è il brano di chiusura, “Brothers in Arms”, paradossalmente l’unico pezzo pienamente epic-power di tutto il disco. Il ritornello è pomposo, caratteristica, questa, testimoniata anche dalla voce di Marius che si fa più profonda e dalle orchestrazioni che pressoché solo qui si fanno sentire davvero. Insomma, sembra come se la band, che dichiara di suonare epic metal, avesse voluto lasciare solo alla fine quell’unico brano che si può dire decisamente ed esclusivamente epic metal.
In conclusione, il giudizio che chi scrive sente di esprimere a riguardo di Hyperion è senza dubbio positivo: gli On Atlas’ Shoulders hanno offerto un disco di qualità indubbia, variegato, ben lavorato e senza troppi fronzoli, mostrando non solo un’eccellente capacità di composizione ma anche di esecuzione, la quale non è stata esposta in maniera astrusa ed estemporanea, ma ragionata, in modo che contribuisse alla realizzazione dei brani e, soprattutto, alla loro unicità. Sì, perché ciascuno dei dieci pezzi che compongono Hyperion, sebbene sfruttino tutti più o meno le stesse componenti, si particolarizza e rimane impresso nell’orecchio dell’ascoltatore, non solo perché coinvolgente di per sé ma anche perché non riflette mai in pieno qualcosa di già sentito all’interno dell’album, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo. Capita spesso, infatti, che la seconda metà di un lavoro sia su per giù lo specchio della prima, che le ultime tracce non siano mai qualcosa di nuovo rispetto a quelle iniziali. In questo caso, invece, quando si è convinti che il metal di “Hyperion” espresso dagli On Atlas’ Shoulders non ha nulla in più da dire, quando si è certi che ci si sta per imbattere nella più classica ridondanza, ecco che la compagine di Francoforte tira fuori il coniglio dal cappello con una mossa, oltretutto, che di magico ha poco o nulla, proponendo due o tre brani che intraprendono una via diversa, che può essere quella dell’hard rock come quella dell’epic metal puro. Il risultato del duro lavoro della band è un disco per niente lungo, che non supera la soglia di attenzione dell’ascoltatore medio, e che soprattutto non fa uso di stratagemmi per raggiungere il proprio scopo, rifiutandosi di sfruttare ballad, tempi morti o rallentati, brani che non sono canzoni, magari ricchi di suoni extramusicali o di parlato. Dieci canzoni, dieci potenziali singoli, un ottimo lavoro. VOTO 8