Marilyn Manson

RECENSIONE A CURA DI FABRIZIO PAVAN

A tre anni da “Heaven Upside Down”, l’11 settembre del 2020 è stato pubblicato “We Are Chaos” l’attesissimo undicesimo album di Marilyn Manson e probabilmente il più eterogeneo della sua carriera.
Affermatosi a meta degli anni 90, il Reverendo ha abituato il pubblico a brani di un certo impatto emotivo. Passando dall’hard rock all’industrial metal con album come “Portrait of an American Family”, “The Pale Emperor” e “Mechanical Animals”, solo per citarne alcuni, è considerato uno degli artisti contemporanei più controversi. E’ stato in grado di creare attorno a se un alone di mistero alimentato negli anni non solo dai testi provocatori o dalle eccentriche esibizioni live ma anche da fatti di cronaca (vedi tra tutti la vicenda della Columbine High School).
Nato dalla collaborazione con Shooter Jennings, conosciuto nel 2013 in occasione della collaborazione per la colonna sonora di Sons of Anarchy, quest’ultima fatica si presenta come un viaggio nella psiche di Manson.
A dispetto del titolo, l’album non mette in rilievo aspetti sociali ma tratta della condizione interiore dell’individuo, in primis la marginalità, tematica molto cara a Manson.
Spiazzante senza dubbio è stata la scelta del primo singolo omonimo. La chitarra acustica con la quale si apre il pezzo ed il tono non aggressivo fanno di questa ballata, intensa e macabra, un esperimento inedito che lascia presagire ad un decisivo cambiamento nelle sonorità, che verrà poi purtroppo smentito dall’uscita successiva dell’intero album.
Nonostante ciò l’opera non delude, è un degno seguito dell’ultimo “Heaven Upside Down”, le sonorità sono curate nel dettaglio e non risultano quasi mai banali ma probabilmente a questo punto della carriera, e dopo un singolo così innovativo, ci si aspettava un lavoro più coraggioso, che ancora una volta non è arrivato.
Ma il vero difetto sta proprio nell’eccessiva disomogeneità. Le parti in gioco sono due, quella “soft” e quella “hard”, ed è quest’ultima quella meno riuscita. Un esempio su tutti è rappresentato dal brano “Infinite Darkness” caratterizzato da un sound già sentito e prevedibile, sicuramente il pezzo più sacrificabile. Inattaccabili invece le ballate (la parte “soft”) e bisogna dire che funzionano tutte. Tra queste “Half-Way & One Step Forward”, un gioiello nella sua semplicità, è il pezzo più solido, probabilmente quello che renderebbe di più nei futuri live, se mai ci sarà un tour promozionale, considerando il momento storico.
Evidente come mai prima d’ora è l’influenza del padre musicale David Bowie, soprattutto nella struggente “Don’t Chase The Dead”, il cui motivo principale ricorda vagamente le sonorità di “Earthling”.
Solve Coagula è il pezzo che maggiormente strizza l’occhio al passato, i continui cambi di ritmo e la voce così cruda e distorta che si trascina a tratti malinconica ci riportano alle atmosfere cupe dell’album Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death) dell’ormai lontano 2000.
Insomma pur non trovandoci di fronte al capolavoro sperato, in un panorama rock non molto vivace, il Reverendo con “We Are Chaos” continua a stupirci, impresa non facile per un artista che ha all’attivo ben undici album. VOTO 7.0

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