Marble

Recensione a cura di Enzo “Falc” Prenotto

Rabbia, tanta rabbia quando ci si rende conto che la maggior parte dei gruppi metal attuali paiono uno la copia dell’altro ma la cosa forse peggiore è la considerazione che i giovani musicisti di oggi paiono macchine piuttosto che persone. Non è un caso che, in questa sede, si parli del nuovo lavoro (arrivato dopo circa tredici anni dal debutto) degli italiani Marble chiamato S.A.V.E. che vede un paio di cambi di formazione con l’ingresso della cantante Eleonora e del batterista Norman. Musicalmente parlando si sta trattando di melodic metal (che a dire il vero vuol dire tutto o niente) o di un certo prog/power metal dalle forti tinte moderne derivanti da influenze decisamente estreme come il djent alla Meshuggah inserendoci qualche sfumatura gothic/symphonic metal.
Non ci si sbaglia, l’album del combo italiano è esattamente come ci si potrebbe aspettare ma si andrà con ordine. La nuova entrata alle vocals è il fulcro su cui verte la maggior parte della componente melodica delle tracce che di positivo portano un buon grado di emozionalità nei ritornelli e nei cori simil sinfonici. Allo stesso tempo però arrivano i dolori. L’ugola di Eleonora, per quanto intonata e piacevole (si ascolti la riuscita “Heartless Desease (Lussuria)”), è troppo anonima e spesso viene sopraffatta dalle tempeste soniche del resto della band risultando quasi un corpo estraneo che un ingranaggio del gruppo. E difatti vanno fatte diverse considerazioni sul resto della band. In ogni brano viene messa in mostra la tecnica e spesso in maniera esagerata e che punta ad una violenza sonora che stride molto con la controparte melodica. L’iniziale “Mine (Avarizia)” parte sparata infarcendo ogni secondo di tecnicismi e cambi di tempo fulminei per mettere in mostra i muscoli lasciando un totale senso di vuoto senza che l’ascoltatore riesca a ricordarsi nulla. La batteria poi appare purtroppo freddissima e meccanica per quanto supersonica risultando quasi un computer che ci può anche stare ma il contesto è assolutamente errato. Il riffing delle due chitarre è l’ennesima operazione copia-incolla dato che, oltre a ripresentarsi esattamente identici in molti brani (“To Feed The Worms(Gola)”, “Where Is The Light(Fede)” o “30 Silver Coins (Speranza)”) sono un qualcosa di sentito e risentito miliardi di volte come pure la terrificante ballad dai toni folk/nordici “A Darker Shade Of Me(Ira)” dato che in tutto il mondo pare esistano solo melodie di stampo nordico nei dischi metal. Anche inserirci timidi inserti di elettronica, sporadici growl o qualche atmosfera orientale (What Leads Us To(Invidia)”) per non parlare degli eclatanti assolo ultra perfetti non serve granché a risollevare un disco dalla mediocrità. Sia chiaro, il disco non è brutto o suonato male ma è un prodotto troppo perfetto sulla carta senza che ci sia un riff che si ricordi o una linea vocale che esalti realmente lasciando chi ascolta inerme e con la sensazione di aver ascoltato un’opera di mestiere o per dimostrare qualcosa a qualcuno (o forse a sé stessi?). Si ascolti, tanto per fare un altro esempio, l’incasinata “My Mask Collection(Superbia)” che non fa capire un accidente di cosa stia succedendo con ritmiche cerebrali che distruggono il discreto lavoro melodico. Non era meglio a questo punto fare un genere più violento che mettere insieme due mondi che non riescono a convivere in armonia?
Un album che riuscirà ad accontentare i fanatici della tecnica, chi mastica metal da pochi mesi lo riterrà un capolavoro ma chi ha un minimo di esperienza di ascolti rimarrà parecchio indifferente. Il metal, come la musica, sta prendendo una brutta piega e dischi come questo (con così tanto tempo di gestazione) dovrebbero donare la speranza anziché spingerla nel baratro. VOTO 6.5

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