RECENSIONE A CURA DI Alfred Zilla

Sembra che nell’ambito dell’Underground o della musica indipendente, in particolare nel nostro Paese, il concetto di One Man Band o «collaborazione», piuttosto che band, gruppo o complesso, sia ormai diventata un’utopia. Forse dovuta alla mancanza di impegno, predisposizione e convinzione nel trovare altri musicisti che abbiano la tua stessa visione, o comunque una molto approssimativa. E gli It Will Last ne sono l’esempio palese, capitanati dal polistrumentista ed insegnante di musica Simone Carnaghi (Chitarra, Basso, Batteria) e dal cantante Daniel Rega (ex Dying Moon). Fondati nel 2018, il nome It Will Last deriva da un brano di un precedente demo «Slender Hopes» (2010) di cui Simone curò testi e strumenti. Gli ascolti «Il Will Last» e «Flying to the Rainbow», presenti nel lavoro già citato, sono stati completamente riarrangiati appositamente per questo concept-album, dal profumo Heavy Epic anni ’80, chiamato «Nightmares in daylight», come prova che forse è vero che i mostri non si nascondono nel buio sottoforma di creature deformi e orrende, ma si possono palesare alla luce del giorno. Il basso, principale strumento di Simone, è il padrone e il conduttore dei riffing, mentre le chitarre sono più soliste, dando prova che le 6 corde non devono essere per forza suonate tutte assieme in accordi o riff più ortodossi, ma anche come degli assoli o delle scale. Il tutto, dagli schiocchi delle 4 corde alle melodie delle 6 corde, dalla voce indiscutibilmente Heavy ed Epic alla batteria secca e coerente, è un puro piacere per le orecchie, neofite o allenate al suono dell’Heavy Metal vecchia scuola. Prima di iniziare, è giusto specificare che il full-lenght è stato prodotto dallo stesso Simone Carnaghi presso il suo studio «Rock & Music Studio» in quei di Milano, Rescaldina. Ora, mettetevi comodi, alzate il volume dei vostri monitor e delle vostre cuffie e lasciate che l’avventura abbia inizio!
PRELUDE OF SINS:
Una tempesta non violenta apre il preludio strumentale di questo album; i toni si ammorbidiscono con una bellissima chitarra acustica perfettamente bilanciata in entrambe le direzioni, accompagnata dal basso schioccante e perfettamente nitido. La melodia sembra far trasparire una sensazione pacifica, salvo poi prendere una svolta che sembra prevedere qualcosa di catastrofico dietro l’angolo, mentre la tempesta riprende e finisce con il suono simile al ruggito di qualche antico mostro risvegliato dal suo torpore… Un inizio interessante che spalanca la porta alla curiosità di quanto potrà accadere in questa storia.
NIGHTMARES IN DAYLIGHT:
Title track. Una chitarra solista che definisce il riffing del pezzo accompagnata dal basso perennemente cavalcante e nitido, suonato forse con o senza plettro in maniera certosina. La voce omaggia palesemente, in maniera sincera o comunque bonaria, allo stile Heavy/Epic tanto in voga negli anni ’80. La batteria, dapprima in mid-tempo, accelera mentre la chitarra accenna a delle note soliste, piuttosto che al riffing affidato al basso, intercambiando i tempi veloce/lento, seguendo perfettamente con la cassa i contraccolpi del basso. Un pezzo che profuma di puro Heavy.
BOUND:
Le batterie, incessanti, squarciano l’inizio del brano, accompagnate dalle chitarre ancora una volta definite in chiave «solista», il basso che fa da padrone al riff principale e la voce leggermente più profonda rispetto alla traccia precedente. Magnifici gli spazi in cui le note delle chitarre prevalgono sulla melodia, perfettamente bilanciate tra cassa destra e cassa sinistra, anche in tonalità differenti ma coerenti tra di esse, definendo una sorta di «corpo/ombra». Dopo questo breve intermezzo, il pezzo procede marziale e spedito nel suo canto epico, da «cantastorie del Metal anni ’80» Interessante anche le ottave prese dalla voce negli ultimi minuti della canzone. Chiaramente diverso dal brano precedente, soggettivamente più o meno coinvolgente, ma legato dallo stesso filo rosso al di là della conclusione di questo racconto.
GLOBAL WARMING:
Questa volta sono le chitarre, solenni e minacciose, ad aprire il pezzo, il basso sempre più bello da ascoltare e le batterie marziali e perentorie. Questo forse a voler gridare la criticità del titolo che rispecchia uno dei principali mali della nostra casa. Le voci sono precise, allineate e anche più teatrali rispetto a prima e la chitarra, questa volta, mantiene la stessa tecnica solista ma
suonata in Palm Muting, seguendo anche le melodie vocali, uno stile tipico di gruppi come gli Arch Enemy, pur omaggiando e mantenendo il «fil rouge» dello stile Heavy ‘80. Intermezzo di un fantastico assolo di basso, al limite del commovente, a cui segue un vorticoso e ben definito assolo di chitarra, mentre il rullante incalza senza pietà. Il finale sembra decelerare, definendo bene tutti gli strumenti e terminando quasi per caso, come se il brano fosse rimasto (volutamente) incompleto, proprio come il problema odierno descritto dal titolo.
IT WILL LAST:
Ed ecco la traccia omonima dell’organico. Spalancata da tempi di batteria, basso marciante e chitarre che si avviano come il motore di un macchinario da massacro. Note cristalline di assoli continuano a definire il riff di basso, sostituiti poi da accordi e arpeggi clean e sognanti. «Non so chi sei, so solo il tuo nome» comincia la voce, seguita poi dalle perenni chitarre soliste multi-tono, regalando al pezzo quell’aura nostalgica anche con il cantato, ora molto più acuto. Ecco la chitarra scambiarsi un gioco di silenzio/ripresa con il basso e la batteria, per poi iniziare a cavalcare e spingersi in un assolo pentatonico, per ritagliarsi i suoi spazi insieme agli altri strumenti, il tutto prima di proseguire con il cantato di questa storia. Cantato che sembra alternarsi tra il falsetto giocoso – che potrebbe lasciare un po’ perplessi i neofiti – e gli acuti tipici dell’Heavy più epico. E il finale, definito dalle batterie che si concedono qualche gioco di velocità senza tradire il BPM, con l’epico «It Will last!» Non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
DEADLY POISON:
Batterie tuonanti, chitarra arpeggiante in uno stile più vicino agli Amon Amarth, quantomeno all’inizio del brano. Dopo un inizio lento ed epico, a livello del termine e non del genere, il brano acquista velocità, le chitarre alternate da arpeggi puliti ad uno stile che sembri far l’occhiolino al già accennato stile del Melodic Death Metal. Il rullante incassa colpi continui nel ritornello, accompagnato da un assolo acuto pannato a sinistra, la voce più convinta che mai. L’assolo a metà brano, il basso che non sfugge mai alle orecchie, sembra rimarcare le stesse tracce vocali, come delle «musiche all’interno della musica», facendo si che le sei corde cantino davvero. Un timing quasi incerto parte dopo l’assolo, il ride della batteria che picchia incessantemente, senza uscire dal BPM e sfociando nell’ultimo ritornello, prima che il brano giunga ad una corretta conclusione.
TIME IS LIFE:
Verità innegabile racchiusa nel titolo. Delle campane fanno da apertura, seguite da un mid-tempo all’insegna di assoli, basso galoppante anche nelle ottave più alte e batteria al seguito. Interruzione, finalmente un autentico riff Heavy pannato a destra, poi il brano inizia a cantare e prosegue sulla sua predestinata direzione, la batteria che segue anche le parti del cantato più incise, facendo si che voce e rullante si trovino sulla stessa lunghezza d’onda. Anche qui un assolo sembra accompagnare il cantato del ritornello, solenne e diretto, in una direzione emozionalmente neutra che potrà voler dire qualcosa senza per forza far uso di sensazioni musicali come gioia o minaccia. Un breve assolo prima di un altro ritornello, ecco un altro assolo con il rullante che fa da metronomo, prima di tornare al solito ritmo 4/4 mentre l’assolo incalza, pannato nelle due differenti scale musicali. Il finale, accompagnato dall’urlo finale «Time!» e dalle chitarre che eseguono l’assolo finale in due diverse ottave ben pannate è solo epicità pura.
THE WINNER:
Una chitarra acustica, con un panning differente in entrambe le casse, accompagna la voce in uno stile Raphsodiano dei pezzi acustici, in un puro stile da «Menestrello dell’Heavy», senza scadere nel parolaio, prima ancora che le batterie e il basso, stavolta leggermente meno evidente, inizino a scandire il tempo di questa poesia. Gli assoli e gli arpeggi, questa volta, sono totalmente acustici. Alla voce narrante, si uniscono alla fine altre voci che, come un coro, rimarcano punti importanti della storia che si sta narrando. Un buon break in mezzo a questa piacevole tempesta di Epic/Heavy ottantiano, oltre che una buona tecnica.
SELFISH PRIDE:
Chitarre soliste “semitone” e batterie che le vanno dietro aprono il brano, dando già in qualche modo l’idea del peccato capitale di cui si andrà a parlare. Il basso inizia a cavalcare, così come alcuni punti delle chitarre, poi la voce accompagna le sole 4 corde, con le altre 6 che si uniscono per regalare più potenza come dei colpi ben calibrati. Durante il ritornello, assolo a sinistra e voci che si sovrappongono di tanto in tanto, regalando genialità, epicità e potenza a questo brano.
Improvvisamente il basso esegue un assolo a scala che non tutti sapranno replicare, le chitarre si intercambiano nei suoni destri e sinistri, prima che l’ultimo ritornello chiuda questo pezzo… con orgoglio!
MONEY AND POWER:
Sembra che dopo l’orgoglio venga l’avarizia. E la lussuria. Indubbiamente, un’altra critica alla decadenza umana ed umanitaria che affliggono la vita del nostro pianeta, plagiata dallo spettro di un sistema ipocrita ed oppressivo. Chitarre e basso ad un ritmo «a scatti» danno il via alla festa, placandosi poi in un tempo più lento con i soliti assoli. La chitarra poi, pannata in un assolo a destra e in un riffing a sinistra, precede il cantato, questa volta quasi commosso rispetto ai pezzi precedenti, convincendosi ed arrabbiandosi anche nei crescendo del pezzo. Due assoli si scambiano qualche nota, negli angoli definiti delle casse – o delle cuffie, o delle orecchie. È un piacere l’assolo a scala a sinistra, mentre cassa e basso procedono in scatti ben definiti, una breve e confortevole sosta prima che il pezzo riacquisti velocità. Il brano sembra proprio finire com’è cominciato, con quegli scatti quasi «Anti-BPM» che invece riescono benissimo e sono una degna conclusione, forse un pò più «anarchica» rispetto ai precedenti singoli, che però regala qualcosa di nuovo che ancora attendeva di essere rivelato in questo girone Classic Heavy.
ON THE ROAD TO REDEMPTION:
Chi non desidera un po’ di redenzione, dopo essersi bruciato con i peccati di prima? O dopo aver perso e sperperato invano tutto l’oro guadagnato ed ottenuto? Il titolo potrebbe seguire per dire proprio questo, forse. Chitarre canterine, menestrelle e più gioiose, non so proprio come altro definirle, aprono le danze, il basso che funge da principale accompagnatore e la batteria che segue, fedele. Uno strano assolo picchettato ed acuto accompagna una certa parte del cantato, riprendendo forse quel guizzo di anarchia e follia di cui ho parlato nel finale del pezzo precedente, senza togliere la coerenza al brano. Curiosamente, il cantato in questo strano assolo sembra ricordare – ed omaggiare – la melodia di «For whom the bell tolls» dei Metallica. Assolo a scala a sinistra, un’altra scala solista e riprendono le chitarre danzanti dell’inizio del pezzo, che accompagnano a sinistra il cantato, questa volta molto più lieto e allegro, ancora alternato tra acuti e falsetto.
FLYING TO THE RAINBOW:
Siamo giunti alla conclusione, e forse il «filo rosso» che legava questi undici brani finora descritti era proprio il rosso dell’arcobaleno, l’arco della porta presso cui finisce questa storia. Un ritmo incessante, scandito dagli schiocchi del basso, dal rullante e dai piatti, anticipa l’inizio della fine (della storia). Le chitarre, un riff a destra e un’armonia quasi funk a sinistra, si evolvono in un assolo a due note ben pannate, prima che una scala quasi minacciosa inizi a scendere a destra. La stessa scala che sarà il riffing, in due ottave, del cantato principale. Mentre la batteria procede statica e stoica, le chitarre sembrano quasi andare di testa propria in un’altra velocità sempre coerente con il BPM, prima che dei brevi assoli a scatti accompagnino altre tracce vocali. Un assolo, un’altra scala accompagnata da tuoni di brevi riffing, poi si riparte con la strofa. Chitarre festaiole insieme alla voce, una scala più spedita e quasi Death, prima a destra poi a sinistra, poi un assolo a scatti, talmente assurdo da risultare geniale e fin troppo atteso. Il finale, con un acuto da essere scambiato per un synth o un unico assolo di chitarra, è la conclusione (forse aperta) di questo concept album, di questo racconto coinvolgente.
La verità è che oggi è impossibile creare qualcosa di nuovo. Ogni cosa che poteva essere cantata, suonata o scritta è stata già fatta. Si può solo continuare per non dimenticare. Imitare per omaggiare. O copiare per proseguire. Sovente, il confine tra umiltà e arroganza, tra oratore e parolaio è molto labile, e sono contento di poter affermare che gli It Will Last sono tutt’altro che questi due aggettivi negativi. Indubbiamente, lo stile non è niente di nuovo, e riecheggia palese l’omaggio di qualcosa di già esistente e già sentito, in un mondo il lotta tra il New Metal e l’Old Metal. Ma il merito è ugualmente assegnato per la coerenza e il rispetto nei confronti della vecchia scuola, l’esecuzione ben progettata e il coraggio egemonico di portare in scena un genere importante che, piaccia o no, non verrà mai dimenticato. Gli It Will Last sono senza dubbio una band con cui sarebbe un piacere condividere i palchi, e questo primo loro full-lenght, questo biglietto da visita, presenta già una bellissima facciata. VOTO 8.0