In Somnia

RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO “KLAUS” CAUSIO

Ci si augura che una band giunta al terzo album sia in grado di produrre un disco che possa coniugare un sound pulito e definito, uno stile personale, elaborato nel corso degli anni, e la tendenza a non annoiare l’ascoltatore, mettendo insieme brani che, seppur coerenti nel complesso, riescano a diversificarsi e dar forma ad un’opera a tutto tondo. Ebbene, gli austriaci In Somnia, con il loro nuovissimo Harlequin, soddisfano in pieno tutte queste aspettative, offrendo un prodotto ben scritto, suonato e lavorato, dal suono chiaro e distinto nonostante la mole di distorsione, fra chitarre e voce, e la potenza espressa dalla batteria, che avrebbe potuto metterne a rischio la limpidezza e, di conseguenza, la comprensione.
Personalmente, ammetto di non essere assiduo ascoltatore di un metal estremo, distorto e violento come quello che a tratti esprimono gli In Somnia, ma basta anche solo destreggiarsi un minimo con il nostro genere per affermare senza azzardo che questo disco risulta piacevole e coinvolgente, al punto che anche chi, come me, appartiene ad una frangia ben più moderata del metal ha ascoltato le nove tracce che compongono Harlequin per un numero di ripetizioni ben oltre quello necessario per stendere un’appropriata recensione, che restituisse il merito dovuto ai quattro austriaci. Ogni brano riesce a mescolare alla perfezione la giusta dose di melodia con la più adatta violenza, in un album che non ha bisogno di una canzone lenta o di uno stacco per evitare di impantanarsi nella ripetitività. Ogni pezzo emerge nella propria unicità, imprimendosi a fuoco nella mente di chi ascolta, che non può fare a meno di cantare. Inoltre, Harlequin non presenta mai tracce di eccessiva durata, rimanendo sempre attorno ai cinque minuti per ciascuna di esse, risultando quindi un album immediato, diretto e rafforzato da una ritmica sempre incalzante ma altrettanto accattivante, su cui si impone una voce che si sposta da un pulito (ma mai del tutto limpido) ad un distorto che tuttavia non stanca.
Insomma, una situazione del genere offre anche pochi spunti per descrivere alcuni dei brani come i migliori o i portabandiera dell’intero lavoro, in quanto ciascuno di essi meriterebbe di essere menzionato, nonostante tutti rispettino le medesime linee guida senza discostarsene praticamente mai, a riprova del fatto che si può produrre un album che risulti comunque un ottimo lavoro anche senza la smania per l’innovazione, per il mai sentito. La traccia di apertura, forse davvero la più significativa, è Rollercoster che, come tutte le altre, è veloce e potente, ma al contempo offre un ritornello catchy e coinvolgente, scandito da una voce per lo più pulita e da un sottofondo orchestrale che sarà presente pressoché per tutto il disco; sulla stessa riga, invece, si posiziona il pezzo successivo, Guillotine, cui fa seguito Crossing Styx, canzone che accelera decisamente i tempi rispetto alle altre due. Questa si caratterizza, oltre che per una maggiore aggressività, anche per una tastiera che si sposta fra un synth (soprattutto nella intro) ed un pianoforte presente sullo sfondo delle strofe. Il brano è veloce, sbrigativo, breve, e lascia presto spazio a Something Ends, Something Begins, in cui tornano i ritornelli orecchiabili e la voce pulita e resta quel piano che ora si prende la scena nella intro, accompagnando poi un ritornello che distende decisamente i tempi dopo le cavalcate precedenti.
Le orchestrazioni tornano invece protagoniste in The Void che, dopo una Breathing Soil più vicina ai tempi di Crossing Styx, riporta le velocità su quelle che avevano scandito Something Ends. Il brano, tuttavia, non aggiunge nulla di nuovo, pur essendo coinvolgente almeno quanto i precedenti, per cui ci spostiamo con rapidità sulle tracce finali, traendo poi le nostre conclusioni. Giungiamo dunque alla title track, Harlequin, un brano che convoglia su di sé tutti gli aspetti caratterizzanti dell’album, dalle voci, ibride fra violente e pulite, ritornelli orecchiabili, un pianoforte ed un tappeto orchestrale. Esso si discosta maggiormente, rispetto agli altri, dalle linee guida del metal estremo che i nostri hanno sposato fin dall’inizio, configurandosi come uno di quei pochi brani-simbolo (forse solo Rollecoster tiene testa) che sono portabandiera di questo disco.
La chiusura, infine, è affidata alla coppia Onomatopoesis – Ripping the Veil, che poco aggiunge a quanto ascoltato. La prima, in particolare, pur essendo tra le più estreme del disco è molto orecchiabile, come le altre, nel ritornello, il quale risulta gradevole nella sua capacità di spostare gli accenti di una minima frazione, che tuttavia rende il tutto ben più movimentato. L’altra, invece, non presenta particolarità degne di nota, per cui preferiamo abbandonarci direttamente alle conclusioni.
Le atmosfere cupe, le distorsioni stranianti e le ritmiche in continua evoluzione caratterizzano quest’album dandogli un’impronta che, seppur non del tutto innovativa, sa essere un marchio di fabbrica degli In Somnia. Il sapiente uso, poi, dei propri strumenti e delle tecniche del mestiere fa sì che i nostri possano proporre un disco piacevole e al contempo aggressivo, mai stancante neanche per chi non è avvezzo ai suoni da cui traggono ispirazione. I momenti più violenti e incalzanti strizzano l’occhio all’ascoltatore più propenso ad un metal estremo, mentre le sezioni più melodiche e orecchiabili si schierano dalla parte di coloro che sono più attenti ai dettagli, alla piacevolezza e al farsi trascinare dalle atmosfere, come il sottoscritto. In conclusione, perciò, Harlequin rappresenta una piacevole scoperta per chi non conoscesse gli In Somnia, ma anche una decisa conferma per chi già ne fosse appassionato. VOTO: 7.5

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