Finnugor

RECENSIONE A CURA DI Claudio “Klaus” Causio

In occasione del disco di oggi, Book of Metal vi farà fare un salto indietro nel tempo, in un periodo che per alcuni, come chi scrive, potrebbe sembrare passato remoto, per altri, invece, l’altro ieri. Sospendiamo per un attimo la pandemia, le due crisi economiche, torniamo ad un anno, anzi, ad un momento in cui tutto sembrava andare per il meglio, quando gran parte dei social media non esisteva e sia The Final Frontier degli Iron Maiden che Lulu dei Metallica ancora non erano neanche in gestazione (forse). Siamo nell’estate del 2008, in Ungheria, e una band locale, già dal 2006 orfana di uno dei due membri che la componeva, il finlandese Tomi Kalliola, lancia sul mercato il secondo album in qualità di one man band project di Gabriel Wolf, il quale l’anno precedente aveva appunto scritto e registrato in solitaria il disco “My Sick Files”, cui di lì a poco avrebbe fatto seguito il lavoro di cui oggi tratteremo. Stiamo parlando dei Finnugor, in special modo del loro (o, più precisamente, del suo) “Fame et Morte”, edito per la prima volta tredici anni or sono da Finsterniis Records e pubblicato nuovamente nel 2020 da Earth and Sky Productions. È impossibile trattare singolarmente le tracce che compongono “Fame et Morte”, in quanto esse si configurano più come un filo unico, in cui ciascun brano è inseparabile dall’altro e in cui l’autore rinuncia del tutto alla possibilità di catturare l’ascolto e imprimersi nella mente del suo pubblico. Anche se, in realtà, la questione è più complessa di così. L’album resta sicuramente nella memoria, risuona ancora e ancora dopo il suo termine grazie alla sua peculiarità, ma non reca mai brani o momenti simbolici, sfruttando piuttosto sempre le stesse tecniche, senza tuttavia risultare mai stancante. Quel che Wolf propone è un black metal decisamente sinfonico, che fa largo uso di una voce sia distorta in ogni maniera possibile sia pulita, ma del tutto incomprensibile quanto al testo, un cantato quasi lirico, profondo, in grado di toccare delle tonalità basse quanto l’inferno stesso da cui sembrano provenire. Le atmosfere che le diverse canzoni suscitano, tutte dal titolo rigorosamente in latino, sembrano uscire da racconti mistici e oscuri del Medioevo e del Rinascimento, non a caso infatti Wolf fa un uso smodato di strumenti e suoni caratteristici di quelle epoche, senza lasciare quasi mai un ruolo da protagonista alla chitarra, preferendo paradossalmente acconsentirne al basso il quale, con i suoi riff sorprendentemente puliti ed una tecnica semplice ma non troppo e decisamente efficace, restituisce sezioni ritmate, accattivanti e incalzanti. Come si diceva, veri protagonisti sono gli strumenti e le sonorità che potremmo definire “antichi”, insieme con una sezione corale che sembra la nemesi dei canti gregoriani, simili a loro nella tecnica e nell’impostazione, diametralmente opposti quanto ad atmosfere e sensazioni restituite. I testi dei brani sono tutti estratti del libro dell’Apocalisse di Giovanni, rigorosamente in latino e anche quando sembrano presagire, dal titolo, momenti di luce, come per quanto riguarda il brano “Vocem Angelorum”, quel che emerge è tutt’altro che positivo: gli archi, i fiati, le orchestrazioni e i ritmi suggeriscono qua e là nel disco momenti ameni e tranquilli, come nel suddetto pezzo, ma è sempre presente un’angosciosa macchia nera che deturpa quella sensazione di speranza. Lo stesso si può dire per la title track, introdotta da quella che sembra essere una chitarra classica scandita da un tempo per niente incalzante, armonizzata con un’altra chitarra che restituisce un senso di piacevolezza, presto interrotto dal black metal che irrompe con tutta la sua violenza e che però non sacrifica mai la melodia. L’intero album scorre seguendo questi dettami, facendo sfoggio della grande capacità compositiva di Wolf, il quale restituisce alla scena metal un album che potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora dello stesso libro dell’Apocalisse, fatto di introduzioni a volte pompose, che quasi strizzano l’occhio alla parte fantasy del power metal (addirittura!), a volte invece silenti, in grado di celare del tutto la violenza insita nel pezzo che lanciano e, più in generale, nell’intero album: è il caso della suddetta “Vocem Angelorum” e di “Mare Vitrieum”, entrambe aperte da un violino, o di “Inferus Sequebatur Eum”, i cui primi secondi sono affidati del tutto ad una cornamusa. Nella difficoltà di poter restituire al mio lettore una descrizione passo per passo di “Fame et Morte”, spero almeno di essere riuscito a raccontare le sensazioni che questo disco symphonic black metal ha prodotto in chi, come il sottoscritto, è abituato ad ascoltare tutt’altro. Angoscia, oscurità, perfino l’esperienza del sublime di stampo romantico che si disvela nel momento in cui si scava nelle profondità dell’immaginario umano fino alle fondamenta stesse del buio inferno o, per l’appunto, all’infinita potenza del fantastico incarnata nella figura dell’Apocalisse: questo è quello che emerge dall’album scritto da Wolf sotto il nome di “Finnugor”, musicalmente ben scritto, altrettanto ben prodotto. Ma soprattutto, quel che questo disco più di tutto suscita è ispirazione: è in grado di stimolare la mente umana, di trascinarla nelle narrazioni che esso stesso dipinge e che lei può contemplare. Non è solo musica, altrimenti sarebbe stato possibile scindere ciascun brano dal resto del lavoro, o quanto meno sarebbe stato possibile per me dire di questo album che fosse di scarsa qualità proprio perché ciascun pezzo è pressoché identico al precedente e al successivo. È immaginazione, è narrazione, è la colonna sonora adatta ad una lettura metallara dell’Apocalisse. Voto: 7.5

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