RECENSIONE A CURA DI Claudio “Klaus” Causio

Mi risulta particolarmente, e spesso piacevolmente, insolito recensire dischi estremi, perché avventurarsi in ambienti sconosciuti porta con sé sempre il gusto della scoperta. Quello di oggi non solo è un album che si allontana, geograficamente, dalle tipiche sonorità cui chi scrive è abituato (un mio limite? Forse), ma anche, temporalmente, dal momento in cui questa recensione prende forma. Il che sarebbe anche normale, visto che generalmente prima avviene la pubblicazione e solo successivamente la revisione e il giudizio per mano di sedicenti specialisti e giornalisti; ma in questo caso la forbice fisiologica che si apre fra l’uscita dell’album e la nostra presa visione si dilata fino a centottanta gradi, perché gli Eldenhor, formazione di cui oggi ci occuperemo, ci obbligheranno a far tornare indietro l’orologio di ben vent’anni, ad un tempo che chi scrive neanche ha vissuto. È il 1998 e, stando ai libri di storia, si sta per chiudere un decennio di rinnovato interesse per sonorità più forti, dal punk al metal. Nascono nuovi sottogeneri, che vedranno accrescere la loro fortuna negli anni a seguire, mentre altri, sorti pressappoco nei dieci anni precedenti, continuano ad essere perpetuati dalle nuove generazioni. I nostri, dalla Russia, si inseriscono in questo secondo filone, cercando di ripercorrere le gesta dei grandi del genere. Proponendo un black classico, ispirato ai culti pagani, al satanismo e alla storia, gli Eldenhor, ufficialmente nati nel 1997 e, stando agli archivi del web, ancora in attività, esordiscono con un EP dal titolo “Realm of Blazing Light”, pronto per l’anno successivo ma, a detta della Earth and Sky, mai rilasciato in formato CD almeno fino al 2018.
Il disco si compone di cinque tracce, tre delle quali strumentali, per un totale di ventitré minuti. Il brano di apertura, The Moonlight, è un classico pezzo black metal, caratterizzato da un sound grezzo e sporco, tempi velocizzati scanditi da una incalzante batteria, e una voce perennemente in scream. Segue The Troubled Shimmer of Stars, sulla stessa linea della prima, senza aggiungere o togliere nulla.
Dalla terza traccia in poi si apre una seconda sezione del disco caratterizzata da tre canzoni strumentali dallo stile più disparato, che lasciano l’ascoltatore pieno di dubbi, che si chiederà se abbia effettivamente ascoltato un disco black metal o meno. Le placide onde del mare che si infrangono sulla riva introducono una tastiera che pian piano si prende la scena, per lasciarla successivamente ad un temporale. Circa due minuti di introduzione, utili a lanciare un brano rapido e potente, quale Siberian Silence. Per quanto anch’esso si inserisca nel filone estremo, è lontano anni luce da quanto ascoltato nelle prime due canzoni del disco: tentativi di orchestrazioni, melodie ben definite, accenti ben marcati e un sound più pulito, sebbene comunque non ci si trovi di fronte ad una produzione impeccabile (sul finale il volume tende ad alzarsi), restituiscono un pezzo gradevole, piacevole, nonostante i ritmi incalzanti.
Dopo ben sette minuti di metal strumentale accade quel che nessuno si sarebbe mai aspettato. Finland, brano successivo, si apre con il suono del vento e l’abbaio di diversi cani, ma la direzione che prende è del tutto stupefacente. Un synth riporta l’orecchio agli anni Ottanta: melodie e ritmica allegre, completamente riprodotte dalle tastiere, batteria compresa, al punto che ci si dimentica di trovarsi di fronte ad un disco catalogato come black metal. Il brano porta a saltare, sorridere, trasuda felicità sebbene, con un titolo simile e con l’aspettativa di un pezzo estremo, eravamo certi che avremmo ascoltato tutt’altro. Insolito ma particolarmente apprezzato da chi scrive, questo cambio di rotta trasforma Realm of Blazing Light da semplice ennesimo disco emulatore dei classici del black in una perla più unica che rara.
Se fosse però per un unico brano non ci sarebbe motivo, sosterrebbe un lettore, per esaltare così tanto un disco, a tal punto di appellarlo come “piccolo tesoro”. Il fatto è che, tuttavia, Finland ha del tutto destabilizzato le attese: ora ci si aspetta di tutto e gli Eldenhor sfruttano questo provocato disorientamento per inserire un altro brano diametralmente opposto a tutti gli altri, Finland compresa. È England (Robin Hood), che oltretutto chiude l’album: né black, né pop anni ’80, questa canzone richiama sonorità bucoliche medievali, sposandole con i synth sfruttati finora, il tutto condito dall’ennesima aurea di allegria inaspettata.
Insomma, questo album lascia sentimenti opposti: si apre con due tracce che non dicono nulla di nuovo rispetto a quanto si sentiva nel black di quegli anni, ma i tre brani successivi gradatamente e, almeno per quanto riguarda il primo di questa seconda sezione, impercettibilmente spostano gli Eldenhor da un metal estremo a qualcosa che non è neanche definibile. Siberian Silence, che è ancora marcatamente metal, tuttavia non ha più nulla delle sonorità scandinave che hanno caratterizzato le prime due. Con Finland ed England, invece, la band non solo migra verso altri lidi, ma attraversa del tutto l’Oceano che divide il metal dal resto della musica: la prima delle due, con una strofa e un ritornello cantati, avrebbe potuto essere proposta senza problemi all’Eurovision Song Contest, mentre l’altra sposa un sound folk medievale, azzerando del tutto qualsiasi influenza proveniente dal mondo del rock e del metal.
Realm of Blazing Light è, come si diceva, una piccola perla proprio per questa seconda sezione così particolare, consigliato non solo agli ascoltatori abituati ad un genere estremo, che qui non troveranno nulla di nuovo, ma anche e soprattutto a tutti gli altri, per vedere come e fino a che punto due o più sonorità così diverse possano correre di pari passo. Voto 7.0