RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO “KLAUS” CAUSIO

Dopo il loro ufficiale esordio discografico del 2014 con Preludes & Nocturnes e la pubblicazione di diversi singoli (confluiti poi nel lavoro di cui si parlerà oggi), gli svedesi Carnal Agony tornano “sugli scaffali”, nel funesto 2020, con un nuovo full-lengh dal suggestivo titolo di Back From the Grave: tredici brani per quasi quarantasette minuti di puro thrash-power metal nordico. In fondo, i tre avevano già fatto vedere di cosa fossero capaci nel precedente lavoro, il quale però ha fatto da preludio, come suggerisce il nome, ad una serie di singoli, la scelta di pubblicare i quali a chi scrive è parsa piacevolmente inusuale, se non altro perché non è più caratteristico per una band underground rispettare quello schema di pubblicazione precedente all’avvento di internet e, ancor più, dei mercati online, quando cioè l’uscita di alcuni brani anticipava quella dell’album. Sebbene sia una pratica diffusa tra molte band di un certo livello, nei “bassifondi” del metal non è più usanza, per cui ha fatto piacere, a chi scrive, l’attenzione riservata dai Nostri al proprio lavoro. Restava da vedere se la medesima cura fosse contemplata anche all’interno dell’album stesso, ma anche all’apparenza noi non abbiamo avuto il minimo dubbio di aspettarci una risposta positiva. La produzione è ottima, i suoni sono bilanciati, tutto è facilmente distinguibile, come è anche ottima la distribuzione dei brani, equilibrata al punto giusto da non stancare e al contempo da trascinare l’ascoltatore a grandi passi verso la fine senza che questi se ne accorga.
Ad uno sguardo generale, soprattutto leggendo la tracklist del disco, il tema principale sembra riguardare in particolare le suggestive immagini sollevate dalle cupe e fantastiche figure di lupi mannari, non-morti che tornano a camminare tra i vivi, streghe e quant’altro. Non a caso, infatti, la copertina dell’album ritrae una mano che emerge dal sottosuolo dinnanzi alla sua lapide. Non resta che confermare queste ipotesi con l’ascolto. Come dicevamo poc’anzi, il disco risulta ben strutturato e curato: la traccia di apertura è una strumentale dal titolo The Rebirth, che lascia presto campo alla title track, Back From the Grave. Se da un lato il brano è potente, ritmato, coinvolgente, per cui è difficile smettere di canticchiarne il ritornello o evitare di lasciarsi andare all’headbanging durante tutta la canzone, dall’altro emergono chiare sin da subito alcune ispirazioni del trio svedese, in cima alla lista i Sabaton senza dubbio, sebbene i Nostri non si lascino andare all’uso smodato dei pomposi synth, caratteristica dei loro connazionali sopracitati. Non qui, quantomeno, perché la medesima vicinanza emerge anche nel pezzo seguente, The Cellardoor (uno dei quattro singoli estratti dal presente lavoro), più vicino all’hard rock che al metal vero e proprio, dove invece quegli stessi synth iniziano a farsi sentire. Anche questo risulta particolarmente ritmato e catchy, altra testimonianza dell’ottimo lavoro svolto dai Carnal Agony.
Insomma, le linee guida tracciate dai Nostri sono chiare: potenza e coinvolgimento, elementi che ritornano anche nei due brani successivi, altri due singoli, quali The Witching Hour e Werewolf of Steel. Vale la pena soffermarsi in particolare su questo secondo in quanto vera e propria peculiarità che è impossibile non sottolineare in un lavoro così cupo nelle tematiche e potente nei suoni. David Johagen, voce del trio, abbandona quel timbro basso, simil-Brodén, che lo ha caratterizzato finora, adottandone uno evidentemente per lui più naturale. Questo cambio di registro si sposa con l’inusuale tematica affrontata, o meglio, con il particolare punto di vista adottato per trattare di un lupo mannaro, che emerge già ad un ascolto meno attento, senza l’ausilio della lettura del testo. Si parla infatti di una creatura con un non indifferente “sex appeal”, un casanova maestro di seduzione, venuto però su questo mondo per punire i criminali, assetato di sangue quale è. Una bizzarra narrazione, atipica, arrivati a questo punto del disco, che però funziona, anzi, risulta fondamentale per spezzare quella serietà e quella pomposità che ormai permeano la discografia di praticamente ogni neonata band di questo stampo. Il tutto è accompagnato da una sezione strumentale che sì, rispetta i canoni ben definiti dai brani precedenti, ma che strizza l’occhio al pop e al pop rock. Insomma, i Carnal Agony si prendono sul serio ma non troppo, sono in grado di divertire e divertirsi, oltre che scrivere del buon power. L’apice però, ad avviso di chi scrive, si raggiunge un attimo dopo, nel salto da questa prima sezione del disco alla ballad che notoriamente spezza un album a metà. Si avverte, per ovvi motivi, un certo contrasto tra la serietà dei primi brani da un lato, l’ironia che traspare da Werewolf of Steel da un altro, ed infine la sofferenza di un amante che ha perso la sua Luna (titolo del brano) mai dimenticata, il tutto scandito da tempi rallentati.
Seguono altri brani di ottima fattura, su cui tuttavia non è necessario soffermarsi più di tanto poiché le linee guida per interpretare il disco sono già state individuate. Per correttezza, però, diremo comunque qualcosa. For The Horde è un brano molto simile alla title track, potente e veloce, che riporta l’album su ritmi più sostenuti. Love Will Tear You Apart è l’ultimo dei quattro singoli estratti da Back From the Grave, piacevole all’ascolto, orecchiabile come il resto: anche qui risulta difficile smettere di canticchiare il ritornello, se non fosse per la successiva Higher (una delle migliori, secondo chi scrive), altra piccola perla che emerge da un lavoro davvero ottimo. The Nightmare Never Stops e la successiva Bane of the Light rispettano in pieno le caratteristiche principali di tutto l’album, senza tuttavia emergere particolarmente, a differenza di gran parte delle altre tracce. Raise the Dead è l’ultimo vero pezzo: forse il più veloce, il più violento del disco, è l’ombra più oscura prima dell’alba. Segue infine una strumentale di chiusura, la cui melodia delicata culla l’ascoltatore e lo accompagna fino al silenzio conclusivo.
Che dire: ci risulta difficile non consigliare vivamente l’ascolto di Back From the Grave agli amanti del metal e, in particolare, a coloro che apprezzano la sua declinazione power o suggerirlo a chi non mastica questo tipo di musica per avvicinarvisi. Non è il miglior disco dell’anno, ma è sicuramente una perla nel “mare metallum” in cui spesso e volentieri molti lavori si somigliano fin troppo. I Carnal Agony hanno pescato dal mazzo qualche carta vincente, abbiamo sentito nitidamente i Sabaton, ma hanno rielaborato quanto hanno preso d’ispirazione. Il risultato è un disco non violento, ma ben curato, godibile, piacevole, di ottima fattura. Ci sentiamo tuttavia di consigliare ai tre di essere più loro stessi: Johagen spesso forza la propria voce per renderla più graffiante e cupa, ma raccoglie risultati meno positivi quando cerca di raggiungere note che sono alla sua portata (Higher e Werewolf of Steel ne sono una prova) con una voce forse eccessivamente artefatta, come per esempio nella sezione centrale di The Witching Hour, che non è pessima ma avrebbe potuto essere migliore. A detta di chi scrive, perciò, quel che basta sarebbe semplicemente, ancora una volta, che la band sia se stessa.
In conclusione: l’augurio è che i Carnal Agony possano far parlare di sé in futuro, perché è ciò che meritano. VOTO 7.5