Bleeding Zero

RECENSIONE A CURA DI CLAUDIO “KLAUS” CAUSIO

Inauguriamo il nuovo anno con un album che vede la luce del sole dopo quasi un decennio di gestazione. I Bleeding Zero, infatti, pur non palesando una data di nascita precisa, trovano la quadra, per quanto riguarda la formazione, nel 2015, quando rilasciano l’EP chiamato Scenophiliac, la cui title track, accompagnata da un videoclip, è contenuta in Pain & Fiction, loro primo vero album. Con una line-up inusuale per il loro genere (tre elementi, di cui uno solo effettivamente solista), i Bleeding Zero presentano Rachele Manfredi, la mente dietro al progetto, alla voce; Daniele Neri alla batteria e alla programmazione; Claudio Sottili al basso. La biografia della band, poi, suggerisce che Rachele sia l’unica a dedicarsi alla composizione e forse è proprio per questo che i nostri hanno impiegato un arco di tempo di quasi dieci anni per consegnare alle stampe il loro primo vero album, un fatto che probabilmente ha influito sul sound e sulla resa dei vari brani (ben dodici) di cui oggi ci dobbiamo occupare. I Bleeding Zero, pur essendo tutti musicisti formati e preparati, non possono esimersi dallo scorrere del tempo e dall’evoluzione che questo comporta: è innegabile, infatti, una differenza netta fra un brano come Scenophiliac e altri che, ad intuito, presumiamo siano stati scritti in fasi successive. Tale aspetto non è necessariamente una nota negativa, anzi, in questo caso permette ad un lavoro così lungo e complesso di non disperdersi troppo e di non risultare stucchevole ed eccessivamente ripetitivo. Molti sono i gruppi che, nel corso degli ultimi venti anni, hanno proposto un symphonic metal ispirato al gotico, sfruttando per lo più sempre le stesse caratteristiche, come ad esempio la voce femminile, spesso lirica, malinconici pianoforti o tematiche già affrontate fino in fondo dai colleghi. La teatralità, il gusto per il decadente e per l’onirico, come anche altri elementi ricorrenti, sono tutti degli strumenti del mestiere del buon musicista symphonic metal, senza i quali sarebbe anche difficile definirsi tale; ebbene, i Bleeding Zero non sono esenti da questo schema ma, fortunatamente, riescono a fare proprio tutto ciò che il loro genere ha messo e continua a mettere a disposizione, prestando attenzione, consapevolmente o meno, a non abusarne. Ecco allora che Rachele si diletta con la lirica ma non disdegna di aprirsi e lasciarsi andare, a voce piena, a momenti (che in realtà sono anche più di semplici momenti) in cui ci permette di godere delle sue doti canore senza farci dire: “ecco l’ennesima cantante lirica”. In effetti, i brani che più abbiamo apprezzato, lo confessiamo, sono quelli in cui la nostra si mette alle spalle la tradizione prendendo la situazione in mano e gridando, tra le righe, la sua unicità. Giocando con l’orecchiabilità e non (troppo) con la tecnicità, la band offre ampi sprazzi di ottimo metal sinfonico (a maggior ragione se, lo ricordiamo, siamo di fronte ad un disco d’esordio). I primi quattro pezzi in particolare lasciano l’ascoltatore piacevolmente sorpreso: Terra Nova riesce a sposare i Nightwish e i Rhapsody, con una spruzzata di Angra per quanto riguarda quel sound che sa di musica tradizionale offerto, qui, dalle orchestrazioni e dal flauto. Life and Death of Sybil Vane, invece, ci getta in una dimensione esoterica distorta, in cui non possiamo che lasciarci guidare dalla voce di Rachele. Segue, poi, una Parnassus che accelera i tempi e incalza i ritmi, colorandosi di un coro lirico preponderante nei ritornelli, uno stile del cantato che ritorna in tutto l’album e si fa protagonista nel pezzo successivo, Sappho’s Leap, in cui Manfredi si lascia andare anche a momenti di pura potenza a voce piena, decisamente apprezzati.
Il resto del disco rielabora qua e là quanto offerto in questa prima sezione che si chiude, due brani dopo, con la ballad In Somnium Ars Clamavit, uno dei pezzi migliori. Qui, diverse voci si mescolano fino a diventare un’unica armonia che si muove di concerto in un cosmo completato da un pianoforte, unico altro strumento insieme al tappeto orchestrale. Il medesimo pianoforte, poi, lancia la successiva Ecce Ancilla Musae, da segnalare per una sezione, in cui Rachele esterna ancora una volta non solo la capacità melodica della sua voce ma anche la sua potenza, che curiosamente sembra richiamare la celebre Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. Ultimo pezzo degno di nota, infine, è il penultimo: Saturnine. Qui, gli elementi chiave del disco ritornano, condensati in un unico brano, dalla voce lirica a quella pulita, sia alta e potente (nei ritornelli) che bassa e calda (nelle strofe). Saturnine è una canzone davvero coinvolgente e incalzante, ottima, come per la verità tante altre, per un’esecuzione dal vivo.
In conclusione, quel che possiamo dire di Pain & Fiction è che risulta un buon album, ben scritto e prodotto, dal sound pulito e distinto, ineccepibile. Pecca leggermente di anonimato perché, come abbiamo già detto, si inserisce in un contesto ormai saturo, ma riesce a presentare qua e là una serie di momenti di spessore che coinvolgono l’ascoltatore, imprimendo nel suo orecchio le proprie melodie. Ritornelli come quello di Sappho’s Leap o di Saturnine risuonano nella testa ancora e ancora dopo il termine dell’album che risulta, infine, piacevole e godibile. La sua lunghezza non rema, però a suo favore, causando, per forza di cose, attimi di anonimato evitabili con una iniziale scrematura. Ciò non toglie comunque che, per essere un album d’esordio, Pain & Fiction non solo merita una sufficienza, ma molto di più. Attendiamo con fiducia e positività il suo seguito. VOTO 7.5

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